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IL NOSTRO PICCOLO GRANDE CLOWN - Il carnevale dell’anima -

Di Antonella Randazzo



Da tempo immemore i buffoni, i pagliacci o i clown hanno avuto la funzione di suscitare la risata. A questo scopo si mascheravano e si comportavano da “diversi”, ovvero da sciocchi, sbadati, o da simpatici maldestri.
Non c’è nulla che non possa suscitare ilarità, come osservava Nietzsche, “falsa sia per noi ogni verità, che non sia stata accompagnata da una risata”.
In realtà, riuscire a far ridere è tutt’altro che facile. L’attore teatrale, mimo e pedagogo Jacques Lecoq voleva capire cosa facesse ridere, e chiese ai suoi allievi di far ridere; tutti cercarono in molti modi, inciampando o facendo smorfie, di far ridere, ma non vi riuscivano se non quando, imbarazzati e con aria triste tornavano al loro posto. A quel punto tutti ridevano, “Non del personaggio che pretendevano di presentarci, ma dell’attore stesso, messo a nudo”(1) . Non bisogna dunque affannarsi per diventare un comico, come spiega Lecoq: “meno cerca di recitare un personaggio, più l’attore si lascia sorprendere dalle proprie debolezze, più il suo clown appare con evidenza”(2) .
E’ la coscienza dei difetti, delle angosce o insicurezze a rendere capaci di far ridere, e riuscire a far ridere risulta un trionfo sui propri difetti, attraverso il coraggio di mostrarli.

Il clown tradizionale indossa una maschera, come per esorcizzare gli aspetti che impersona dal suo sé fuori dal clown. Egli sperimenta la libertà concessa soltanto a lui, che gli sottrae le sicurezze abituali, la camminata o l’abbigliamento “normali”. Può mostrarsi fragile senza suscitare timore, può vestirsi come vuole, e può far saltare le certezze quotidiane senza essere emarginato. Secondo Lecoq, il clown è sincerità e semplicità: “Con il clown, chiedo (agli allievi) di essere se stessi nel modo più profondo possibile e di osservare l’effetto che producono sul mondo, ovvero sul pubblico”(3).

La figura del clown non potrebbe esistere senza quell’insieme di problematicità e di inquietudine umana, che egli mostra in vari modi e con varie sfumature. Il clown appare incapace di dominare la realtà, capace soltanto di mostrare le assurdità e le follie che gli sono proprie. Egli sa esprimere ciò che è comunemente inesprimibile, o che è negato: la devianza, la stupidità, la distrazione o l’inadeguatezza.
Anche il cinema ha riproposto i clown, privi di trucco vistoso, poiché le scene dei film sono inserite in un ambiente realistico e non si svolgono su un palcoscenico. Il più celebre comico è Charlot, un personaggio dall’aspetto e dai modi buffi, che vive peripezie di vario genere, all’interno di scenari di povertà, alcolismo e fame, tipici delle masse di quegli anni. I suoi persecutori sono i poliziotti, oppure personaggi malvagi, che cercano di approfittarsi di lui o di sfogare la loro rabbia. Egli è spesso vittima delle circostanze, ma trova riscatto, suscitando nel pubblico simpatia e commozione. Charlot e altri personaggi presenti nei suoi film (come il piccolo vagabondo) appaiono come ribelli al mondo, e dunque non integrabili nella società. In realtà essi mostrano le fatiche e le sofferenze della classe inferiore, il cui destino può spesso dipendere dal caso. La bravura di Charlie Chaplin consisteva nel saper rendere le emozioni dei suoi personaggi. Anche quando interpreta il “Grande dittatore” oppure “Monsieur Verdoux” esprime una satira pungente, che, nella sua drammaticità, fa riflettere.

La satira, se di qualità, è sovversiva, in quanto fa emergere i paradossi e le incongruenze quotidiane o del sistema.
Il riso satirico è frutto di un’analisi acuta dello scarto fra ciò che dovrebbe essere e ciò che è. Esso scaturisce dal disappunto e dalla frustrazione causati da un mondo che non è come promette di essere.

La satira di qualità può diventare un elemento di crescita e di maggiore comprensione della realtà. Per questo motivo, nei sistemi dittatoriali la vera satira viene censurata o tenuta in ambiti ristretti (ad es: in teatro), mentre la comicità più grossolana, fatta di luoghi comuni e banalità (es: volgarità, costumi grotteschi, ecc.), viene concessa alla “massa”.
La satira, come ogni tipo di libera creatività, si basa sul “cambiare il punto di vista”, ovvero sulla capacità di vedere la realtà in modo nuovo.
Scriveva Federico Fellini:
“Il clown incarna i caratteri della creatura fantastica, che esprime l’aspetto irrazionale dell’uomo, la componente dell’istinto, quel tanto di ribelle e di contestatario contro l’ordine superiore che è in ciascuno di noi. E’ una caricatura dell’uomo nei suoi aspetti di animale e di bambino, di sbeffeggiato e di sbeffeggiatore. Il clown è uno specchio in cui l’uomo si rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. E’ proprio l’ombra. Ci sarà sempre. E’ come se ci chiedessimo: E’ morta l’ombra? Muore l’ombra? Per far morire l’ombra occorre il sole a picco sulla testa: allora l’ombra scompare. Ecco: l’uomo completamente illuminato ha fatto sparire i suoi aspetti caricaturali, buffoneschi, deformi. Di fronte a una creatura tanto realizzata, il clown – inteso come il suo aspetto gobbo - non avrebbe più ragione di essere. Il clown, è certo, non sarebbe scomparso: sarebbe stato, soltanto, assimilato. Cioè, in altre parole, l’irrazionale, l’infantile, l’istintivo non sarebbero più visti con un occhio deformatore, quello che li rende deformi”(4).

Secondo Jung, in un contesto repressivo lo sfogo può avvenire anche attraverso quegli aspetti considerati bizzarri o folcloristici: “L’Ombra, al nostro livello attuale di civiltà, è considerata una deficienza personale (gaffe, lapsus) e viene addebitata alla personalità cosciente come una sua mancanza…L’Ombra personale è per così dire la discendente di una figura luminosa collettiva. Questa, sotto l’influenza della civiltà, a poco a poco si disgrega e sopravvive soltanto in residui folcloristici dov’è difficile identificarla. Ma il suo nucleo principale si integra alla personalità e diventa oggetto di responsabilità soggettiva… ( il clown) Non ha coscienza di sé al punto che non costituisce un’unità, e le sue due mani possono litigare l’una con l’altra… Persino il suo sesso è facoltativo, malgrado i suoi attributi fallici: il briccone può trasformarsi in donna e generare bambini… rivelando così la sua originaria natura di creatore: dal corpo del dio si forma il mondo”(5).

Il buffone, in epoca Elisabettiana, era il “deviante” o colui che aveva deformità fisiche o problemi mentali. Coloro che volevano far ridere prendevano di mira i difetti umani, come l’avidità, l’avarizia, la rozzezza e la paura. Altre caratteristiche riprese dai clown erano l’eccentricità e l’ingenuità. In alcuni casi erano oggetto di derisione caratteristiche corporee come la magrezza, la grassezza o l’altezza.
Secondo lo studioso William Willeford, l’anomalia fisica e mentale dell’attore-Fool (attore comico) si ergono a simboleggiare l’uomo negli aspetti che non si integrano nella società, e che lo rendono “diverso” dagli altri: “Solo se si accetta la zona di follia che è dentro di noi si ottiene l’accesso ai contenuti creativi che essa cela …Il Fool tragico è in ciascuno di noi, e vuole essere riconosciuto, accettato, amato. La nostra umanità non può prescindere dalla sofferenza che ci causano la nostra inadeguatezza e la nostra goffaggine, la parte ridicola che talvolta ci tocca recitare nel grande spettacolo del mondo… Il Fool incarna dunque la parte non adattata e ridicola della personalità. Ma è proprio quella parte disprezzata, quella funzione inferiore a fare da ponte con l’inconscio e a consentire di continuare il cammino verso la completezza… (il) Fool… pur essendo il più delle volte un’accozzaglia di elementi caotici e sproporzionati, riesce, talvolta, a comporre questi stessi elementi in un disegno equilibrato e armonico”(6).

Dunque il clown può esprimere i paradossi dell’esistenza, quel doversi adattare ad una realtà che si sente estranea, oppure al sentirsi come stranieri nel proprio paese. Egli può risultare un sovversivo, poiché modifica le prospettive comuni, inventa un suo linguaggio e mostra difetti che molti nascondono.
Secondo Papini il clown è una “figurazione di pulsioni filosofiche ed anarchiche allo stato puro”(7) .
Fra il Settecento e l’Ottocento si diffuse la comicità dei clown. La parola inglese “clown” deriva da “clod”, che deriva dalla parola latina “colonus” (contadino) e significa “stupido”.
Il personaggio ridicolo di solito vestiva i panni della persona povera (contadino), che per associazione veniva intesa da tutti anche come persona sciocca o non molto intelligente. Anche in tempi recenti la persona ridicola è quella appartenente alle classi popolari, anche se non è più il contadino. Ad esempio, il personaggio del ragionier Fantozzi è, nell’era del lavoro d’ufficio, un umile impiegato con una situazione economica assai modesta. Ad oggi non c’è l’idea che un personaggio della classe ricca possa essere ridicolo, ad esempio, che un grande imprenditore o un banchiere possano rappresentare personaggi comici. C’è l’idea che chi è ricco deve per forza essere così intelligente e brillante da non poter essere mai messo in ridicolo. Chi è inteso come “vincente” sembra non dover esprimere alcuna ironia in quanto si presume che egli non abbia alcun difetto, e dunque nessun contenuto risibile. I “vincitori”, al contrario dei “perdenti”, sembrano al di sopra di ogni debolezza, come se le loro certezze impedissero di guardare a se stessi come ad esseri umani. Ma proprio in questa raffigurazione del potente, c’è la disumanizzazione che lo porterà a credersi quasi divino. Nel perdere la propria imperfezione umana egli perderà anche le possibilità di grandezza. Infatti, proprio lo scoprire il piccolo Io vulnerabile, di cui si può sorridere, può rappresentare la chiave per poterlo illuminare con la più vasta anima.
Certamente l’essere umano non è soltanto i suoi aspetti imperfetti, egli, a seconda delle sue scelte, può anche abbracciare nobili caratteristiche, come l’altruismo e la solidarietà. Tuttavia, non lo può fare senza prima attraversare le sue imperfezioni, dato che soltanto quando accetterà i suoi difetti e limiti sarà in grado di accettare i limiti e i difetti altrui, imparando ad amare.
Il clown racconta storie di incertezze, di errori e debolezze: storie “umane”che rendono umani, e dunque imperfetti, fragili, ma empatici. Invece, chi si erge al di sopra dell’umano, rifiutandosi di ammettere incertezze e debolezze, rischia di non poter sorridere di sé e dunque di non potersi appropriare di tutto ciò che è profondamente e splendidamente umano. Paradossalmente, il clown, assumendo un ruolo e una maschera, rivela ciò che gli umani, apparentemente privi di maschera, nascondono o negano.

I primi clown erano acrobati, e nel tempo diventarono personaggi imbranati vestiti in modo ridicolo. Fra il Settecento e l’Ottocento, alcuni clown usavano vestire da contadini e stare nel pubblico, fingendosi spettatori. Ad un certo punto essi urlavano di essere capaci di fare ciò che avevano visto fare all’acrobata, e dunque venivano invitati sul palco a dare prova di ciò che dicevano. Ovviamente, si sarebbero avute scene comiche per far ridere il pubblico. Il clown di solito parlava poco o era muto, e poteva anche comportarsi in modo bizzarro (veste abiti troppo grandi o piccoli, ha il naso rosso, si pesta il dito, inciampa, cade, viene picchiato, ecc.), oppure fingersi matto. Si rideva evadendo da un assetto “normale” ritenuto vero per tutti. Come scrive Remy: "La pista (del circo) è lo spettacolo deformante di una verità che è tale in ogni istante”(8).

Chi ride di solito non si sente oggetto della parodia e non è emotivamente coinvolto. Come spiegò il celebre filosofo Henry Bergson, l’emozione impedisce la risata. Infatti, nessuno ride in una situazione che lo coinvolge emotivamente: “Anime invariabilmente sensibili, accordate all’unisono con la vita, in cui ogni avvenimento si prolungasse in risonanza sentimentale non conoscerebbero né comprenderebbero il riso”(9) .
Questo accade perché di solito non vogliamo ridere di noi stessi e nemmeno delle persone a noi vicine, vogliamo ridere dei nostri nemici o di coloro che non ci stanno a cuore. In altre parole, desideriamo credere che non si possa ridere di noi ma soltanto di quelli che non ci sono simpatici. Ma in realtà si può ridere di tutti, e il saper ridere di se stessi svela una grande anima. L’anima di chi sa che tutti gli esseri umani hanno lo stesso valore, e che non esiste colui che è tanto perfetto da non poter essere deriso, né colui che è tanto imperfetto da dover essere deriso per forza.
Sembrerebbe che la comicità possa svelare gli aspetti umani più veri, sancendo una possibilità di verità di se stessi non concessa se non al di fuori del “normale”.
Spiega lo scrittore Francois Billetdoux: “il clown deve conservare tutto il suo mistero… asessuato, senza età al di là del tempo e delle mode... Come un angelo, insomma, caduto sulla terra in stato di ebrezza? Trascinato nella parata per quale parodia? E di quale villaggio sarebbe l’“idiota”? Forse il clown è l’avvenire dell’uomo. Chissà se ci arriveremo.(10)”

Il clown è oltremodo “deviante”, è spontaneo e allegro come può esserlo un bimbo, e ciò è permesso soltanto a chi non è adulto o a chi interpreta un “ruolo” e il cui comportamento rimane relegato all’interno di quel ruolo. Egli diverte perché fa “cose proibite” o rappresenta colui che diverge da tutti gli altri, e può farlo finché è clown.
Per alcuni studiosi il clown (o il comico in generale), può consentire una catarsi, scaricando attraverso una risata la tensione, e permettendo di vedere in modo diverso un evento o una situazione. Al comico si permette di capovolgere la realtà, di ironizzare su personaggi o situazioni così come la persona comune non può fare. Il comico può provocare, tanto la sua provocazione si intende come estranea alla realtà, in quanto appartenente all’ambito dell’irrealtà clownesca.
Provocando, il comico contribuisce ad alleggerire la tensione, senza però permettere di modificare in alcun modo la realtà che l’ha provocata. Il riso è un sollievo momentaneo, certamente assai salutare, ma non può sostituirsi all’azione eversiva delle persone che non vestono i panni del comico.

Secondo diversi autori il comico può assumere compiti di tipo “politico” nel produrre catarsi e nel sostenere le logiche del potere. Secondo gli scrittori Concetta D’Angeli e Guido Padano, il comico serve a “Denunciare vizi, comportamenti riprovevoli, devianze dall’ordine che il sistema sociale stabilisce, e in tal modo avviare, esplicitamente o implicitamente, la loro repressione o correzione, appare essere la via per giustificare un ruolo a sua volta istituzionale, ma tale divenuto cristallizzando posizioni alternative, trasgressive o comunque sospette”(11).

Alcuni autori hanno messo in evidenza una presunta funzione repressiva esercitata dal comico: egli, nel rappresentarlo in modo irriverente, stigmatizza il diverso. Mostra colui che non si conforma come fosse uno sciocco insensato che proprio perché non abbastanza intelligente è incapace di condividere i significati accettati da tutti. Secondo D’Angeli e Paduano, bollando per stupidità il voler esprimere liberamente se stessi fuori dalla massa, si ottiene un compromesso nel giudizio sociale, che permette di prevenire o sostituire il giudizio manicomiale. Osservano: “Pur restando devianza dalla norma, esso si fa norma a sua volta, e sostanzia di sé il comportamento sociale, diventando di fatto la morale dominante. In questo caso l’aggressione comica equivale a una battaglia politica, e infatti si propone di contribuire a un fine propriamente politico, il sovvertimento della società corrotta. L’indignazione che condanna l’immoralità di una società che detta le leggi e insieme si arroga il diritto di infrangerle, interpreta al livello più alto la coscienza adulta, la stessa che nutre le lotte politiche, i sermoni edificanti, le campagne di moralizzazione… non sempre dobbiamo cercare nel riso immorale l’emergenza massima della sovversione; sempre e comunque dovremo invece cercarvi qualcosa che renda accettabile la rivolta antisociale in un contesto sociale”(12).

Altri autori hanno messo in evidenza che il clown esiste in quanto c’è bisogno di mostrare un modo grottesco di comportarsi, e di determinare la catarsi implicita nel deridere le strutture e i significati del potere. Nel far ciò, il “buffone” di corte aiutava il re a mantenere e rafforzare il suo potere. Spiega Willeford:
“Il ruolo del buffone assolve così ad alcune delle medesime funzioni cui assolve la ribellione ritualizzata che permette, a quanti in un determinato sistema politico occupano una posizione subalterna, di esprimere i loro risentimenti, effettivi ed eventuali, nei confronti dell’autorità. Il fatto che la ribellione sia permessa, se non addirittura incoraggiata, significa che le istituzioni sociali e coloro che detengono il potere sono forti abbastanza da poterla tollerare, perciò va a tutto vantaggio dell’autorità e della coesione sociale… Il buffone da un lato con la sua allegria alleggerisce il peso della minaccia, spostando nell’immaginario l’eventualità di un suo ripresentarsi; dall’altro agisce contro di essa incarnando un principio di totalità; nella fattispecie ripristina in una nuova forma di equilibrio, quella originaria condizione di unità prima che il regno venisse separato da quanto in esso non poteva essere contenuto”(13).

Non sempre il clown (o il comico) spalleggia il potere, egli può liberarsi dal fascino del potere e agire in libertà. Spiega Dario Fo: “I clown, come i giullari e i ‘comici’, trattano sempre dello stesso problema, della fame: fame di cibo, fame di sesso, ma anche fame di dignità, di identità, fame di potere. Infatti il problema che pongono costantemente è di sapere chi comanda, chi grida. Nel mondo clownesco due sono le alternative: essere dominanti oppure dominare… Ai nostri giorni, il clown è diventato un personaggio destinato a divertire i bambini: è sinonimo di puerilità sempliciotta, di candore da cartolina d’auguri, di sentimentalismo. Il clown ha perso la sua antica capacità di provocazione, il suo impegno morale e politico. In altri tempi il clown aveva saputo esprimere la satira alla violenza, alla crudeltà, la condanna dell’ipocrisia e dell’ingiustizia… L’osceno è sempre stato l’arma più efficace per abbattere il ricatto che il potere ha piazzato nel cranio della gente, inculcandole il senso di colpa, la vergogna e l’angoscia del peccato. Che grande trovata quella di farci nascere già colpevoli, con una colpa (quella originaria) da scontare o lavare! Machiavelli consigliava al Principe: “Date a un popolo la convinzione d’essere colpevole, non importa di che, e vi sarà più facile governarlo”. Distruggere, col far ridere, questa angoscia, è sempre stato l’impegno principale dei comici, specialmente di sesso femminile”(14).

Soltanto a carnevale si concede a tutti la possibilità di esprimere un comportamento non conforme e di vestire come si vuole. Ma in tal caso, essere liberi equivale a diventare ridicoli, grotteschi, e dunque ad assumere un comportamento che non può divenire la norma. Come scriveva il filosofo Markus Ophälders l’ironia del comico “conserva… i significati più profondi e remoti… i significati connessi all’oggetto di questa contemplazione: alla vita come festa”(15).

Il travestimento viene ad essere una maschera burlesca, gioiosa, un modo per uscire dal contesto quotidiano e sfogare le tensioni. Nel clima festoso cessa l’ansia, vengono attutite momentaneamente le paure e si riceve una temporanea consolazione.
C’è l’idea che si possa uscire dagli schemi soltanto in determinati ruoli o in determinati tempi e modi. Associare l’essere “diversi” alla comicità o alla circostanza festosa, equivale a dimenticare che molti aspetti del concetto di “realtà” sono arbitrari, ma vengono imposti come assoluti, impedendo una libera scelta individuale. Si dà una informale licenza di ridicolizzare tutto ciò che non rientra nei criteri della “gabbia di massa”.
In altre parole, si può uscire dagli “schemi”, ma, paradossalmente, a patto di rimanere negli schemi del comico o dei festeggiamenti carnevaleschi, altrimenti si corre il rischio di finire alla gogna mediatica o imbottiti di psicofarmaci.

Imparare ad agire come ci si sente veramente, senza timore di far emergere gli aspetti non allineati con ciò che gli altri si aspettano da noi è molto difficile. Più facile è far sentire a noi stessi e agli altri il peso del conformismo.
Siamo indotti a focalizzarci soltanto sugli aspetti esteriori e superficiali di noi stessi e degli altri, per non scoprire che ognuno è un universo pregno di creatività, che si cerca di tenere bloccata a costo di produrre nevrosi.
Nell’aborrire il clown che c’è dentro di noi, e nel temere di esprimere qualcosa che non rientra nei canoni della “realtà”, si rischia di perdere la parte più vera di se stessi, e tutto ciò che potrebbe essere espresso soltanto attraverso una sincera risata.



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NOTE

1) Lecoq Jacques, “Le corps poétique” (“Il corpo poetico”), Paris, Actes Sud, 1997, trad. it. di R. Mangano, Ubulibri, Milano 2000, p 167.
2) Ivi, p. 168.
3) Lecoq Jacques, op. cit., p. 172
4) Fellini Federico, “I clown”, Cappelli, Bologna 1988, p. 36.
5) Jung Carl Gustav, “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Bollati Boringhieri,
Torino, 1980, pp. 254-255.
6) Willeford, William, “Il Fool e il suo scettro”, Moretti-Vitali, Bergamo, 1998, pp. 20-64.
7) Vittori Maria Vittoria, “Il clown futurista, Storie di Circo, Avanguardia e Café-chantant”, Bulzoni, Roma 1990, p. 42
8) Remy Tristan, “Arrivano i Clown”, Il Formichiere, Milano 1962. p. 25.
9) Bergson Henry, « Il riso, saggio sul significato del comico”, Rizzoli, Milano 1991, p. 39.
10)Sallè, H. , “L’arte del Clown”, Gremese, Roma 1994, p. 171.
11) D’Angeli Concetta, Paduano Guido, “Il comico”, Editore Il Mulino, Bologna 1999, p. 7.
12) D’Angeli Concetta, Paduano Guido, op. cit., p. 13.
13) Willeford, William, op. cit., pp. 229-235
14) Fo Dario, “Manuale minimo dell’attore”, Einaudi, Torino, 1997, pp. 267-300.
15) Markus Ophälders, “Sopravvivere alla cultura”, in Aa. Vv. “Filosofia dell’arte”, n. 2, 2002.

1 commento:

Alberto ha detto...

Si dice dei cattivi invincibili "una risata vi seppellirà". Per ora ci strappano le risate per seppellirci .... in sofferta letizia. Nel marketing sesso e ridicolo si contendono il primato, ma il secondo è molto più subdolo. Cantautori come Grillo e Travaglio ben rappresentano l'epoca. Ci provano perfino Berlusconi e D'Alema con tanta minor capacità ma maggior efficacia. Da strumento di liberazione non è che la comicità si è trasformata in strumento di dominio? Non per certificare la supremazia, ma proprio per conquistarla e mantenerla? La torta si fa con molti ingredienti, e la simpatia è uno di quelli indispensabili al consenso.
Certo che la materia è interessante, dico sul serio ...

Alberto